giovedì 17 febbraio 2011

Racconto di una mia amica artistissima, Francesca Bosi

“Sono un cane poeta!” disse il taglia media meticcio Pasternak mentre lo portavo a fare pipì. Io che parlo un po’ il canese gli risposi:-”I cani non hanno mani per scrivere, come puoi essere poeta?” Pasternak scodinzolò alzò la gamba e disegnò un grande Aleph con l’urina.
Mentre raccontavo questo aneddoto al telefono nella mia cascina minimal tanto cool e democratic style, Pasternak mi fissava dal divano mentre la mia compagna non credeva a una sola parola della mia storia, ma le piaceva immaginare che fosse vero. E’ un segno di civiltà non sparare colpi mortali sul viale dell’Amore e io avevo una fidanzata civile che sapeva quanto io e Pasternak ci volessimo bene.
Amava la mia innocenza e io amavo l’innocenza di Pasternak, ci accomunava il fatto che non fossimo affatto dei duri, lui quando incontrava cani più grandi si sdraiava per terra e mostrava la pancia in atto di sottomissione, io quando fiutavo qualche problema cambiavo rapidamente marciapiede.

Aleph al quadrato, al cubo; qualcosa di enorme, molto più grande di quanto non si possa immaginare, forse grande come una copula ben fatta quando arriva al suo culmine, una cosa che non si immagina in un insieme di pensiero logico. Io e Pasternak ai giardinetti sotto la pioggia pensiamo all’infinito mentre annusiamo le tracce del mondo.
Quando sali su un jumbo per andare dall’altra parte della terra devi ricordarti solo due cose; la melatonina e di cambiare l’ora del tuo orologio, il resto rimane tutto uguale negli aeroporti internazionali da un capo all’altro del pianeta, paghi Mastercard o Visa e non ti devi neppure preoccupare della differenza di valuta. Io e Pasternak vivremmo bene nella check in area sdraiati sulle nostre valige ad attendere un viaggio per tutta la vita guardando la gente passare. Siamo contemplativi e indolenti ma lui ha la fortuna di essere un cane; un cane poeta.
Tutti sanno che il cielo è solo, solo come un umano in agonia nella sua comune e scontata azione di morire, così pensiamo io e Pasternak quando dopo il consueto risveglio precoce, verso le cinque del mattino, lo porto ai giardinetti e guardiamo iniziare il giorno. Quando la caverna stellata della notte lascia posto alla speranza dell’inizio, come se fosse una novità. Io e Pasternak speriamo tutti i giorni che sia l’incipit per qualcosa di meglio, ma poi ogni alba è solo la parola “alba” e il racconto resta sempre lo stesso; uno psicolabile disoccupato, il suo cane poeta e qualche volta le caramelle alla frutta per me e un osso di prosciutto per lui se il macellaio lo ha tenuto da parte.
Per noi ogni cosa è liquida, liquida e impregnante e noi siamo spugne sporche in mezzo a un mortorio di eloqui prevedibili, l’unica cosa davvero importante è avere un riparo quando finisce l’estate ed è tutto scontato.
Quando fui homeless Pasternak non era ancora nato, facevo tutt’uno con i posti in cui capitavo, se la testa e la realtà sono abbastanza aggressivi non è un gran problema il freddo e per il cibo, quello si trova sempre. Non c’è bisogno di sognare. L’unica cosa importante è curarsi di cambiare marciapiede quando si fiuta il pericolo e non avere troppo bagaglio. Come un involucro galleggiavo gonfio sul mondo liquido con pensieri abbastanza visionari per non cogliere la stucchevole banalità di una vacanza al mare.
Perché è al mare che sono morto in cambio di una scatola di biscotti. Non sono morto per la quotidiana razione di ossigeno ma per una confezione di Gran Turchese. Mi hanno preso così, come se stessero catturando un animale selvatico che ha bisogno di cibo per l’inverno. L’azzurro stemperato del cielo non lo hanno guardato, con solerzia chiamarono i netturbini delle anime e mi portarono in un prefabbricato senza finestre. Se Pasternak fosse stato con me forse mi avrebbe difeso. Ma Pasternak non era ancora nato, era un cane inconcepito.
Quando ero homeless avevo grandi idee, occorre sovvertire il quotidiano; vivere da ciechi in una sfera di cristallo da indovini per avere la forza di riprendere il cammino tutti i giorni senza sapere la stazione successiva, occorre che le scritte delle insegne siano libro magico essere un fiore nel vento in mezzo al mondo che è un tesoro perduto nei recinti degli impiegati, delle commesse dei dirigenti medici e delle infermiere.
Oggi sono alla mia seconda vita, ho immaginato il sospiro della mia fine in quel prefabbricato. Non ne ho memoria, ma so di aver lasciato i fiori di primavera vicino a Genova e che una volta conosciuto il mio nome sillabarono; psi co ti co e decretarono la fine della libertà. Niente più stazioni successive, niente più vivi, niente più vita, chiusa la porta. L’acqua rimediata alle fontanelle sostituita da veleno, Genova non c’era più, niente più brezza né mercati improvvisati dagli immigrati nei caruggi dai mille odori misti di spezie e fetore di immondizia.
Niente di niente, solo minestra, che non riuscivo a mangiare, si era fatto troppo pesante persino il cucchiaio e gli occhi non riuscivano a rimanere aperti, la mia vita umiliata, avvelenata per la guerra dei normali. Poi sono morto, è morto quello sforzo di costruzione di una pace pazza, quel mimetismo che mi gridava in testa e mi ingigantiva come mappa infinita, senza che io potessi lottare, mi hanno paralizzato, ucciso col veleno, avevo trentatre anni.
Adesso ho trentasette anni, ho un cane una casa e c’è una donna che mi vuole bene, sopravvivo e non ho più nulla di inedito; un deserto di granelli catalogati.

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