venerdì 22 luglio 2011

Da "Sono stato quel ragazzo", un mio libro per pochi

Eravamo amici dei travestiti. Una oscura traversa di corso Buenos Aires ospitava un dancing equivoco, con la palla stroboscopica e i divanetti di pelle rossa. Si capiva che era una discoteca degli anni ’70, rimasta ferma nell’arredamento e nello stile. Una ricostruzione da film non avrebbe saputo fare di meglio. Insieme porto di mare e nave in secca, non so per quali vie l’American Disaster era diventato l’approdo della comunità delle trans brasiliane di Milano. Era cioè un posto dove queste persone si ritrovavano fra di loro per divertirsi: una dimensione privata, non di adescamento, tanto per essere chiari. Infatti, italiani non ce n’erano quasi.

Ci capitammo per un caso lungo da spiegare e diventammo affezionati, poiché ci colpì da subito l’autenticità del luogo, la sua dolente poesia, la potenzialità di svelamento del reale che possedeva. Infatti, entrare all’American Disaster significava venire denudati all’istante di qualunque ruolo e certezza precostituita. La distinzione più elementare, quella del genere sessuale, era tutta mescolata e perciò abolita. Nessuno poteva più rapportarsi a nessuno nei termini di “maschio” e “femmina”; se scambiavi una parola con qualcuno, era con quella creatura lì e nient’altro, all’istante. Non si capiva con chi si aveva a che fare né in che termini tu stesso venivi inteso. Si era costretti a essere e basta, spariva anche l’abitudine percettiva, non solo riguardo al guardare ma anche all’essere guardati. Spariva ogni preconcetto sui fini dell’esistenza. Il tutto in mezzo alla musica, a risate disperate di voci femminili che da un attimo all’altro diventavano cavernose, a gambe chilometriche e tette da baraccone. A parte gli scherzi, c’erano anche molte bellissime ragazze fra i trans. Il bello però è che non c’era una vera atmosfera da discoteca, ma piuttosto da festa in casa. Niente di commerciale.
Omar si commosse la prima volta che andammo, in occasione del compleanno di una certa Jacqueline. Fu una tenera e folle festa, con uno spettacolino fuori dai canoni, dove in molte si esibirono con canzoni. Furoreggiavano Renato Zero e le piume di struzzo. Alla fine della festa Jackie, dall’alto del suo metro e ottanta, e dei suoi grandi, rischiosi occhi verdi, distribuì a tutti i partecipanti la sua “bomboniera”: un piccolo bebé di gesso, dormiente come un Gesù bambino su un cuscinetto di tulle rosa. Questo particolare della bomboniera, del regalino non ricevuto ma offerto dalla persona festeggiata, che ne rappresentava in modo così spalancato l’apice ideale, l’aspirazione irrealizzabile dei viados (innocenza e maternità), strappò la commozione di Omar.
Un’altra volta eravamo sotto Natale. Omar usava dividere con me il pacco-dono che gli faceva l’azienda. C’erano molte buone cose, equamente ripartite tra il “goloso” e il “sempre utile”: pasta, caffè, paté d’olive, spumante, panettone e quant’altro. Faceva la sua scena. Lo zampone, che non piaceva né a me né a Omar, finiva dritto dai miei genitori.
Ed eccoci in giro con la macchina, io, Omar e il pacco appena ricevuto, ancora chiuso col fioccone aziendale. Era una limpida e fredda sera di Milano nord, zona Melchiorre Gioia, in quello slargo tormentato dove a volte c’è il circo, a volte la cittadella della moda, a volte le bidonville. Gli avevo proposto io di uscire senza meta, venire a prendermi appena fuori dal lavoro, mollare tutto e fare qualcosa di bello, perché lo volevo consolare della serata prima da cui era uscito deluso. C’era infatti stata la presentazione del suo nuovo libro, Memorie di un uomo in armi, ma purtroppo non era venuta bene. Dovevamo rifarci. Non si sapeva dove andare e non si aveva voglia di scendere dalla macchina perché faceva piuttosto freddo. A un semaforo stava lì piazzato un trans in tanga e pelliccia, il brillante nel suo ombelico si espandeva nel nostro finestrino. Io e Omar eravamo su di giri, probabilmente ho sfoderato uno dei miei assurdi sorrisi e, insomma, abbiamo preso a parlare.
“Non hai freddo?”, dice Omar.
“E certo, um pouco, qui non è il Brasile”, risponde Walmira.
“Sei qui da molto?”
“Un mese, non mi sono ancora ambientata…”
Si capiva che Walmira quella notte non aveva voglia di battere, e il momento coinvolgeva in pieno anche me e Omar, perché partecipava del riflesso di quelle stelle ghiacciate e sembravamo le uniche anime sotto il cielo. Scendemmo in strada anche noi e il mio amico ebbe un’idea brillante: “Apriamo lo spumante e festeggiamo l’anno nuovo!”. Dovevate vedere come fu felice Walmira. Si eccitò come un bambino, batté le mani, saltò di gioia, grande com’era, sui tacchi a spillo. Walmira non era né brutta né bella: un tipo massiccio dal viso infantile, credo una buona persona, aveva perfino un che di materno (fra l’altro poi ci raccontò che la prima sua settimana a Milano le aveva prese selvaggiamente da una specie di loro boss, e poi perciò se n’era andata e ora lavorava da sola, altrimenti non avrebbe mai potuto fare il Nuovo Anno con noi).
Omar aprì il panettone, stappò lo spumante, facemmo tavola della capotte della macchina, brindammo a canna ridendo di continuo e fummo felici come chi ama.
Dopo una mezzoretta di questo festino, però, il freddo si faceva sentire troppo. Walmira disse: “Per stasera non lavoro più. Amici, per favore, mi accompagnate a casa?”. Tornammo in auto, io dietro, e da qui i miei ricordi si confondono. Probabilmente dormivo, Omar e Walmira parlavano, quando fui svegliata da un inesorabile stimolo di pipì. Tra il freddo e il bere, capirete… Non potevo trattenermi! Dissi: “Omar, fermati, perché io devo scendere!”. Io poi non sono solita così, mi vergogno. Eppure la situazione era insostenibile, e a mali estremi, estremi rimedi. Si compose in tal modo un’immagine che non dimenticherò mai, io accucciata nel gelo sul marciapiede di un grande viale di macchine, deserto nella notte di vetro, con le lucine lontane dei camion, e per amicizia Walmira in piedi di fianco a me a farmi da paravento, enorme, possente e nuda come una bruna dea infera del Walhalla, che si teneva aperta la pelliccia con le braccia distese; sembrava l’uomo di Leonardo.

3 commenti:

  1. Ti segnalo questo collegamento, potrebbe interessarti:
    http://www.vivamafarka.com/forum/index.php?topic=102389.0;topicseen

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  2. Ciao Anna, mi sono imbattuta in questo tuo blog oggi, quasi per caso. Ti ho conosciuta, tanti anni fa, a una presentazione di questo tuo libro su Omar; io ero stata sua compagna di classe, al Manzoni, ma non lo conoscevo bene. Quella sera ho comprato il tuo libro, e tu mi hai fatto una dedica. Ho letto il tuo libro diverse volte, e ti ringrazio per tutto quello che hai scritto e per come l'hai scritto. Un abbraccio, Isabella

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